Gen 102022
 

Io sono figliuolo unico d’un ricco mercante di Surate. Poco tempo dopo la sua morte, dissipai la miglior parte dei molti beni ch’egli mi aveva lasciati, e terminava di consumarne il resto cogli amici, allorché trovossi per caso alla mia mensa un forastiero che passava per Surate, per andare all’isola di Serendib. La conversazione cadde sui viaggi. Se si potesse — soggiunsi sorridendo — andare da un capo all’altro della terra senza fare cattivi incontri per istrada, domani ancora io uscirei di Surate.

A queste parole lo straniero mi disse:

—   Malek, se avete voglia di viaggiare, v’insegnerò, quando vogliate, un modo di andare impunemente di regno in regno.

Dopo il pranzo, mi prese in disparte per dirmi che l’indomani mattina si recherebbe da me.

Venuto infatti a ritrovarmi, mi disse:

—    Voglio mantenervi la parola: mandate da un vostro schiavo a chiamare un falegname, e fate sì che tornino ambedue carichi di tavole.

Giunti che furono il falegname e lo schiavo, lo straniero disse al primo di fare una cassa lunga sei piedi e larga quattro. Il forestiere, dal canto suo non stette in ozio, fece parecchi pezzi della macchina, come viti e molle, lavorando ambedue tutto il giorno; dopo di che il falegname fu licenziato, e lo straniero passò il giorno seguente a distribuire le molle ed a perfezionare il lavoro.

Finalmente il terzo giorno trovandosi terminata la cassa, fu coperta con un tappeto di Persia, e portata in campagna, dove recatomi col forestiero questi mi disse:

—   Rimandate i vostri schiavi e restiamo qui soli. Ordinai a’ miei schiavi di tornare a casa, e solo restai con quello straniero. Mi affannava per sapere cosa farebbe di quella macchina, allorché vi entrò dentro, e in pari tempo la cassa si alzò da terra volando per l’aria con incredibile celerità; e sicché in un momento fu lungi da me, per poi un istante dopo tornare a discendere a’ miei piedi.

—   Voi vedete, — mi disse il forastiero uscendo dalla macchina — una vettura assai comoda; vi faccio dono di questa cassa; ve ne servirete se vi pigli la voglia, quando che sia, di percorrere i paesi stranieri.

Ringraziai lo straniero e gli diedi una borsa di zecchini.

—   Insegnatemi — gli domandai poi — come si fa a mettere in moto la cassa?

—   È cosa che imparerete presto, — mi rispose.

Così detto mi fece entrare nella macchina con lui, poi toccata una vite fummo tosto sollevati in aria: allora mostrandomi in che modo si avesse a condursi per dirigersi sicuramente:

—   Girando questa vite — mi diceva — andrete a destra, e girando quest’altra, andrete a sinistra: torcendo questa molla, salirete; toccando quella là, discenderete.

Volli farne il saggio io medesimo. Girai le viti, e toccai le molle; ed infatti la cassa, obbediente alla mia mano, andava secondo che mi piaceva e mi precitava a mio piacere o rallentava il movimento. Fatte alquante giravolte per l’aria, spiccammo il volo verso casa, e andammo a scendere nel mio giardino. Fummo a casa prima de’ miei schiavi; feci chiuder la cassa nel mio appartamento, ed il forestiere se ne andò. Continuai a divertirmi co’ miei amici sino a tanto che ebbi terminato di mangiare il mio patrimonio; incominciai anche a prendere in prestito, sì che insensibilmente mi trovai carico di debiti. Vedendomi vicino a soffrire dispiaceri ed affronti, ricorsi alla mia cassa; la trascinai di notte tempo dal mio appartamento in una corte, mi vi chiusi dentro con dei viveri ed il poco denaro che mi rimaneva. Toccai la molla che faceva ascendere la macchina: poi girando una vite, mi allontanai da Surate e da’ miei creditori. Feci, durante la notte, andare la cassa più veloce- mente possibile. Allo spuntar del giorno, guardai per un buco, ma non vidi che montagne, che precipizi, e una campagna arida.

Continuai a percorrere l’aria tutto il giorno e l’indo- mani mi trovai sopra un bosco foltissimo, presso al qua- le era un’assai bella città. Mi fermai per considerare la città, non meno che un palazzo magnifico che presenta- vasi a’ miei occhi, quando vidi un contadino nella cam- pagna che lavorava la terra. Discesi nel bosco, e lascia- tavi la cassa, mi avanzai verso l’agricoltore, al quale do- mandai come si chiamasse quella città.

—   Giovane — quegli mi rispose — si vede bene che siete forestiero poiché non sapete che questa città si [33] chiama Gazna. Quivi fa il suo soggiorno il buono e va- loroso re Bahaman.

—   E chi alberga — gli chiesi — in quel palazzo?

—   Il re di Gazna — rispose l’ha fatto fabbricar per tenervi rinchiusa la principessa Scirina sua figliuola, dal suo oroscopo minacciata d’esser ingannata da un uomo.

Ringraziai il contadino di avermi istruito di tutte queste cose, e volsi i passi verso la città. Com’era presso ad entrarvi, udii un gran rumore, e presto io vidi comparire parecchi cavalieri magnificamente vestiti, tutti montati sopra bellissimi cavalli, riccamente bardati. In mezzo a quella superba cavalcata eravi un uomo grande che teneva in testa una corona d’oro, i cui abiti erano sparsi di diamanti; giudicai che fosse il re di Gazna e seppi in- fatti nella città che non mi ero ingannato.

Fatto il giro della città, mi risovvenni della mia cassa; uscito da Gazna, non acquietai l’animo sin che non fui giunto dove si trovava.

Allora ripigliai la mia tranquillità; mangiai con molto appetito quel che mi restava di provvigioni e siccome capitò presto a notte, determinai di passarla in quel bosco. Non mi riuscì di addormentarmi: ciò che il contadino mi aveva narrato della principessa Scirina mi stava senza posa fitto nel pensiero.

A forza di pensare a Scirina, che io mi dipingeva più bella di quante mai donne avessi vedute, mi venne voglia di tentare la fortuna.

—    Bisogna — dissi tra me — che mi trasporti sul tetto del palazzo della Principessa, e procuri d’introdurmi nel suo appartamento; chi sa che non abbia la ventura di piacerle?

Formai dunque la temeraria risoluzione e la posi sul momento ad effetto. Sollevatomi in aria, condussi la mia cassa verso il palazzo. Passai senza essere scorto sopra la testa dei soldati, e discesi sul tetto. Uscito dalla cassa, sdrucciolai dentro per una finestra, entrando in appartamento adorno di ricche suppellettili, dove sopra un sofà di broccato riposava la principessa Scirina, che mi parve di abbagliante bellezza.

Me le accostai per contemplarla: mi posi poi ginocchioni a lei dinanzi, baciandole una di quelle bellissime mani.

Destossi sul momento, e scorgendo un uomo in atteggiamento d’intimorirla, diè un grido che presto attrasse presso di lei l’aia, la quale dormiva in una stanza vicina.

—   Mahpeiker — le disse la Principessa — accorrete in mio aiuto; ecco un uomo; come poté egli introdursi nel mio appartamento? O piuttosto, non siete voi complice del suo misfatto?

—   Chi, io? — ripigliò la governante — Ah! questo sospetto mi oltraggia: non istupisco meno di voi di vedere qui questo giovane temerario; d’altra parte, quando pure avessi voluto favorire la sua audacia, come avrei potuto ingannare la Guardia vigilante che sta intorno al castello? Sapete che vi sono venti porte di acciaio da aprire prima di giunger qui; che sopra ogni serratura sta impresso il regio sigillo, e che il re vostro padre ne tiene le chiavi: non comprendo in qual maniera questo giovane abbia superate tante difficoltà.

Intanto che l’aia parlava in tal guisa, io pensava a quello che avessi a dire. Mi venne in mente di persuaderla d’essere il profeta Maometto.

—    Bella Principessa — dissi dunque a Scirina — non istupite, e neppure voi, Mahpeiker, se mi vedete comparire qui. Io sono il profeta Maometto, e non ho potuto, senza pietà vedervi condannata a passare i bei giorni vostri in un carcere, e vengo a darvi la mia fede per mettervi al sicuro della predizione di cui si spaventa Bahaman vostro padre. Mettete ormai, come lui, lo spi- rito in calma sul vostro destino ch’essere non saprebbe se non pieno di gloria e di felicità, poiché sarete sposa a Maometto. Tosto che sia sparsa nel mondo la nuova del vostro maritaggio, tutti i Re temeranno il suocero del gran Profeta, e tutte le principesse v’invidieranno  sì gran sorte.

Mahpeiker e la principessa prestarono fede alla mia favola.

Passata la miglior parte della notte colla principessa di Gazna, uscii prima di giorno dal suo appartamento, non senza prometterle di tornare l’indomani. Corsi al più presto alla macchina, e postomici dentro, mi sollevai altissimo per non esser veduto dai soldati.

Andato a discendere nel bosco, vi lasciai la cassa e presi la via della città, ove comprai delle vettovaglie per otto giorni, degli abiti magnifici, un bel turbante di tela delle Indie a righe d’oro, con una ricca cintura; né dimenticai le essenze ed i profumi migliori, impiegando in queste spese tutto il mio denaro.

[35]    Rimasi tutto il giorno nel bosco ad abbigliarmi e profumarmi. Appena giunta la notte, entrai nella cassa e volai sul tetto del palazzo di Scirina, introducendomi nel suo appartamento come la notte precedente. La Principessa dimostrò come mi attendesse con molta impazienza.

—   O gran Profeta! — mi disse — incominciava ad inquietarmi, e temeva che aveste già dimenticata la vostra sposa. Ma ditemi, perché avete l’aspetto così giovanile? Io m’immaginava che il profeta Maometto fosse un vegliardo venerabile.

—   Né v’ingannate — le dissi — ed è l’idea che aver si deve di me; e se vi comparissi dinanzi qual apparisco talvolta ai fedeli a’ quali mi compiaccio di fare un simile onore, mi vedreste una lunga barba bianca: ma mi è parso che voi amereste una figura meno antica, e per questo presi la forma d’un giovane.

Uscii nuovamente dal Castello sulla fine della notte, e vi tornai l’indomani sempre conducendomi così destramente, che Scirina e Mahpeiker non sospettarono nemmeno che vi potesse essere nel fatto nessun inganno.

Al termine di alcuni giorni, il re di Gazna recossi, seguito da’ suoi ufficiali, al Palazzo della Principessa sua figliuola, e trovandone le porte ben chiuse, ed il suo sigillo sulle serrature, disse a’ suoi Visir che lo accompagnavano:

—   Tutto cammina per il meglio. Sinché le porte del palazzo rimarranno in questa condizione, poco temo la disgrazia ond’è minacciata mia figlia.

Salì solo all’appartamento di Scirina, che, al vederlo, non poté non turbarsi, ed egli avvistosene, volle saperne la cagione; curiosità che accrebbe il turbamento della principessa, la quale vedendosi finalmente obbligata, ad appagarlo, gli narrò tutto quanto era corso. Si può immaginarsi qual fu lo stupore del re Bahaman, allorché seppe di essere, all’insaputa sua, suocero di Maometto.

—   Ah! quale assurdità — esclamò egli — ah figlia, quanto siete credula! O cielo! ben veggo presentemente come sia inutile voler evitare le disgrazie che tu ci riservi; l’oroscopo di Scirina è compiuto, un traditore l’ha sedotta!

Così dicendo, uscì agitatissimo dall’appartamento della Principessa, e visitò da cima a fondo tutto il palazzo. Ma ebbe un bel cercare per ogni dove; che non iscoprì traccia veruna del seduttore.

[36]    Per dove — chiedeva egli — può essere entrato l’audace in questo castello? Davvero ch’io nol so comprendere.

Bahaman, attendendo la notte, si diede nel frattempo a fare nuove interrogazioni alla Principessa, domandandole prima di tutto se avesse mangiato con lei.

—   No, o signore — gli disse la figliuola — indarno gli ho offerto vivande e liquori; non ne ha voluto, e dacché viene qui, non l’ho veduto mai prender cibo di sorta.

Frattanto capitò la notte. Sedutosi Bahaman sur un sofà, fece accendere i lumi che furongli posti davanti sopra una tavola di marmo, mentre egli sguainò la spada, per servirsene al caso, lavando nel sangue l’affronto fatto all’onor suo. Un lampo che ferì gli occhi del Re lo

fece rimbalzare, onde si avvicinò alla finestra per la quale gli raccontò Scirina ch’io doveva entrare e vedendo il cielo tutto di fuoco, gli si turbò l’immaginazione. Nella disposizione in cui trovavasi l’animo del Re, io poteva presentarmi impunemente dinanzi a quel principe, ed anzi, lungi dal dimostrarsi furibondo allorché io apparvi alla finestra, si trovò tutto compreso da rispetto e timore; per modo che, lasciatasi cader di mano la sciabola e, cadendomi a’ piedi, me li baciò, e mi disse:

—   O gran Profeta! Chi sono e che ho io meritato per meritar l’onore d’esservi suocero?

—   O gran re — gli dissi rialzandolo — voi tra tutti i principi musulmani siete il più attaccato alla mia religione: per conseguenza chi più dev’essermi gradito! Era scritto sulla tavola fatale che vostra figlia sarebbe sedotta da un uomo, il che i vostri indovini hanno benissimo scoperto mediante i lumi dell’astrologia: ma io pregai l’altissimo Allah di risparmiarvene il dispiacere mortale, e togliere simile disgrazia alla predestinazione degli uomini; il che egli si compiacque di fare per amor mio, a condizione che Scirina diventasse una delle mie mogli.

Credette il debole Principe tutto ciò che gli dissi, e beato d’imparentarsi col gran Profeta mi si gettò una seconda volta ai piedi, per attestarmi il sentimento che aveva della mia bontà. Lo rialzai di nuovo, lo abbracciai, e lo assicurai della mia protezione, intanto ch’egli non sapeva trovar termini a suo grado abbastanza forti per ringraziarmene. Dopo di che, credendo che fosse creanza il lasciarmi solo con sua figlia, si ritirò in altra stanza.

Rimasi con Scirina alquante ore: ma al finir della notte, me ne tornai al bosco.

Nel medesimo giorno avvenne un incidente che terminò di raffermare il Re nell’opinione sua. Mentre egli tornava col suo seguito alla città li sorprese nella pianura un temporale, durante il quale mille lampi gli coprirono gli occhi.

Accadde per caso che il cavallo di un cortigiano, incredulo a ciò che riguardava il preteso Profeta, adombrasse; s’impennò e gettò per terra il padrone che si ruppe una gamba.

—   O miserabile! — esclamò il Re, vedendo cadere il cortigiano — ecco il frutto della ostinazione nel non volermi credere che il Profeta ti punisce.

Portarono il ferito a casa sua, e non fu Bahaman sì tosto nel suo palazzo che fece pubblicare un bando per Gazna, col quale diceva esser suo volere che tutti gli abitanti celebrassero con grandi feste il matrimonio di Scirina, con Maometto.

Si fecero pubbliche allegrezze, ed udivasi da per tutto gridare:

—   Viva Bahaman suocero del Profeta!

Tosto capitata la notte, volai al bosco, e presto fui dalla Principessa.

—   Bella Scirina — le dissi entrando nel suo apparta- mento — voi non sapete ciò che oggi è accaduto nella spianata. Un cortigiano il quale dubitava che voi aveste sposato Maometto, espiò il suo dubbio; suscitai una tempesta della quale il suo cavallo si spaventò; ed il cortigiano caduto, si spezzò una gamba.

Passato quindi alcune ore colla Principessa, me ne partii.

Il giorno dopo il Re riunì i suoi Visir e i suoi cortigiani:

—   Andiamo tutti insieme — disse loro — a chieder perdono a Maometto pel disgraziato che negò di credermi, ed ebbe il gastigo della sua incredulità.

In pari tempo, montati a cavallo, recaronsi al Palazzo della Principessa, ed egli, seguito da’ suoi, salì all’appartamento di sua figlia, a cui disse:

—   Scirina, veniamo a pregarvi d’intercedere presso il Profeta per un uomo che si è attirato il suo sdegno.

—   So cosa è, o signore, — gli rispose la Principessa

—  Maometto me ne ha parlato.

Tutti i ministri e gli altri rimasero convinti che quella era moglie del Profeta, e prosternandosi a lei dinanzi, umilmente la supplicarono a pregarmi in favore del cortigiano ferito: il che essa loro promise.

Nel frattempo mangiai tutto ciò che aveva di vettovaglie, e siccome non mi restava più denaro, così il Profeta Maometto incominciava a non saper più dove batter la testa. Immaginai allora un espediente: — Principessa

—   dissi una notte a Scirina — abbiamo dimenticato di osservare nel nostro matrimonio una formalità: Voi non mi deste dote, e questa ommissione mi fa pena. Basterà che mi diate alcuno dei vostri gioielli, sola dote ch’io vi domandi.

Scirina voleva caricarmi di tutte le sue gemme, ma io mi contentai di prendere due grossi diamanti, che il giorno appresso vendetti a un gioielliere.

Era già quasi un mese che passando pel Profeta me- nava una vita piacevolissima, allorché capitò nella città di Gazna un Ambasciatore che veniva da parte di un Re vicino a chiedere Scirina in matrimonio.

—   Mi duole — rispose Bahaman — di non poter ac- cordare al re vostro signore mia figlia, avendola data in isposa al Profeta Maometto!

L’Ambasciatore, da tale risposta del Re, argomentò che fosse divenuto pazzo.

Prese congedo, e ritornò al suo Signore, che alla prima credette che quello avesse perduto il senno; poi imputando il rifiuto a disprezzo, fu punto, e chiamate alquante truppe, formò un grosso esercito, col quale entrò nel regno di Gazna.

Questo Re chiamavasi Cacem, ed era più forte di Bahaman; il quale dall’altra parte si preparò così lentamente a ricevere il nemico, che non gli poté impedire di fare grandi progressi.

Intanto il Re di Gazna, informato del numero e del valore dei soldati di Cacem, incominciò a tremare, e radunato il suo consiglio, il cortigiano fattosi male cadendo da cavallo, parlò in questi termini:

—   Io stupisco che il Re dimostri in questa occasione tanta inquietudine. Qual danno, tutti i Principi del mondo insieme uniti, possono mai cagionare al suocero di Maometto?

—   Avete ragione; al gran Profeta appunto io devo rivolgermi. Ciò detto andò a trovare Scirina, a cui disse:

—   Figlia, appena domani spunterà la luce del giorno, Cacem ci deve assalire, e temo non isforzi i nostri trinceramenti; vengo dunque a pregar Maometto di volerci aiutare.

—   Signore — rispose la principessa — non sarà troppo difficile interessare alle nostre parti il Profeta: egli disperderà ben presto le truppe nemiche, ed a spese di Cacem impareranno a rispettarvi tutti i Re del mondo!

—   Intanto — riprese il Re — la notte si avanza, ed il Profeta non comparisce: ci avrebbe egli abbandonati?

—   No, padre mio — ripigliò Scirina — non crediate che egli ci possa mancare nel bisogno. Ei vede dal cielo, dov’è l’esercito che ci assedia, e forse sta già mettendovi il disordine ed il terrore.

Era infatti ciò che Maometto aveva voglia di fare.

Osservate, nel corso del giorno, di lontano, le schiere di Cacem, ne avevo notata la disposizione, e preso sopratutto di mira il quartiere del Re. Raccolti quindi molti ciottoli grandi e piccoli, ne riempii la cassa, e sollevandomi verso mezzanotte nell’aria, m’inoltrai verso le tende di Cacem, tra le quali distinsi quella in cui il Re riposava.

Tutti i soldati che trovavansi attorno alla tenda dormivano il che mi concesse di scendere, senza che alcuno mi scorgesse, sino ad una finestra, d’onde vidi il Re coricato sur un sofà.

Uscii mezzo dalla mia cassa, e scagliando a Cacem un gran sasso, lo colpii in fronte ferendolo gravemente.

Egli sentendosi colpire mandò un alto strido, che subito destò le guardie e gli ufficiali, i quali accorsi dal Principe, lo trovarono coperto di sangue e quasi senza sentimenti.

Intanto io mi sollevai sino alle nubi, lasciando cadere una grandine di pietre sulla tenda reale e nelle vicinanze.

Allora il terrore s’impadronì dell’esercito; i nemici di Bahaman, colti da terrore, si diedero alla fuga con tal furia, che abbandonarono equipaggi, tende, e ogni cosa gridando:

—   Siam perduti! Maometto ci stermina tutti quanti. Il Re di Gazna restò assai sorpreso allo spuntar del giorno, quando si avvide che il nemico si ritirava. Si diede dunque a perseguitarlo co’ suoi migliori soldati, e fatta strage dei fuggitivi, raggiunse Cacem, la cui ferita gl’impediva di correre prestissimo.

—    Perché — si fece a dirgli — sei venuto contro ogni ragione e diritto ne’ miei stati? Quale motivo ti ho dato di farmi guerra?

—   Bahaman — gli rispose il Re vinto — io mi immaginava che tu mi avessi negata la figlia per dispetto, e io ho voluto vendicarmi! Non potevo credere che il Profeta ti fosse genero: ma ora però non ne dubito, perché egli solo fu quello che mi ferì.

Bahaman cessò di perseguitare i nemici, e tornò a Gazna, con Cacem, il quale morì della sua ferita.

In tutte le moschee si fecero preghiere per ringraziare il cielo di aver confusi i nemici dello Stato, e quando fu notte, il Re si recò al palazzo della Principessa.

—   Figlia — le disse — vengo a render grazie al Profeta di quanto gli debbo.

Presto ebbe il contento che bramava, ché subito entrai per la solita finestra nell’appartamento di Scirina.

Gettandosi subitamente a’ miei piedi, il Re baciò la terra dicendo:

—    O gran profeta! non vi sono termini, per esprimervi tutto ciò che provo.

Sollevai Bahaman e lo baciai in fronte dicendogli:

—    Principe, voi poteste pensare che io vi negassi l’aiuto mio nell’impaccio nel quale per mio amore voi vi trovate: ho punito l’orgoglioso Cacem, che voleva rendersi padrone de’ vostri Stati, e rapire Scirina, per metterla tra le schiave del suo Serraglio.

Nuovamente assicurato il Re di Gazna che io prendeva sotto la mia protezione il suo regno se n’andò per lasciarmi Scirina in libertà.

La qual Principessa non meno sensibile del Re suo padre all’importante servigio da me reso allo Stato, me ne dimostrò non minore riconoscenza, facendomi mille carezze. Poco mancò che quella volta non dimenticassi le mie parti: già stava per apparire il giorno allorché tornai alla mia cassa.

Due giorni dopo, sepolto Cacem, il Re di Gazna, ordinò che si facessero per la città grandi allegrezze, tanto per la disfatta delle truppe nemiche quanto per celebrare solennemente il matrimonio della principessa Scirina con Maometto.

M’immaginai di dover segnare con qualche prodigio la festa che si facea in onor mio, e a tale effetto, comprata della pece, con dei semi di cotone ed un piccolo acciarino, passai la giornata nel bosco a preparare un fuoco d’artificio, bagnando il seme di cotone nella pece, e la notte, mentre il popolo divertivasi nelle strade, mi trasferii sopra la città, inalzatomi più alto che mi fosse

possibile, accesi la pece, che colla grana fece un bellissimo effetto: poi ritornai nel mio bosco.

Fatto dopo poco giorno, andai alla città per avere il piacere di udir cosa si direbbe di me. Mille discorsi stravaganti si facevano dal popolo sul tratto ch’io gli aveva giuocato. Tutti quei discorsi mi divertirono infinitamente: ma ohimè! mentre mi prendeva quel piacere la mia cassa, la mia cara cassa, l’istrumento de’ miei prodigii, vidi che ardeva nel bosco!

Probabilmente durante la mia assenza s’appiccò alla macchina una scintilla, della quale non mi era avveduto, la consumò, sì che al ritorno la trovai tutta in cenere. Eccheggiò il bosco delle mie grida e de’ miei lamenti e invano mi strappava i capelli e mi lacerava le vesti….

Intanto il male era senza rimedio; bisognava prendere una risoluzione, né me ne restava che una sola: quella cioè di andare a cercar fortuna altrove. Così il Profeta Maometto, si allontanò dalla città di Gazna.

Incontrai tre giorni dopo una grossa carovana di mercanti del Cairo che tornavano in patria; mi mischiai con essi, e recatomi al gran Cairo, mi posi a esercitare la mercatura. Girai molti paesi e visitai non poche città, sempre ricordandomi del mio felice passato. Finalmente invecchiato, capitai fin qua, imbattendomi nell’infelice a cui tu, o gran principe de’ Genii, volevi toglier la vita.

Il Genio, non appena n’ebbe udito la fine, accordò l’ultimo terzo della grazia del mercante, e poscia disparve.

Il mercante non mancò di rendere a’ suoi tre liberatori le grazie che loro doveva, e se ne tornò presso la sua sposa e i suoi figli, e passò tranquillamente con loro il resto de’ suoi giorni.

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